Lo sappiamo che non è niente di nuovo. Lo sappiamo che lo sapete che il 24 marzo 2018 negli Stati Uniti migliaia di ragazzi come noi hanno marciato per le strade delle più grandi città americane per protestare contro le armi. Ma questi episodi non stancano mai e noi vogliamo tenerli lì, come un simbolo di cosa siamo capaci di fare.
La mia amica Leda c'era. Ci ha raccontato la sua "March for Our Lives" e con le sue foto ci ha anche portato un po' lì con lei, a New York.
La mia amica Leda c'era. Ci ha raccontato la sua "March for Our Lives" e con le sue foto ci ha anche portato un po' lì con lei, a New York.
"Correvamo lungo la Sixth Avenue, terrorizzate che il corteo fosse già partito e non ci avrebbero fatte entrare: lungo la strada erano allineate transenne su transenne, giù fino a Central Park, e ad ogni traversa giravano attorno all'angolo, così che per andare avanti bisognava fare una decina di metri a destra e poi attraversare e tornare sul marciapiede. Graziella era convinta che fosse già tutto finito, erano le dodici e un quarto, c'era poca gente in giro – o forse era solo il silenzio delle macchine deviate -, e gli ultimi a cui avevamo chiesto ci avevano risposto "alle dieci al parco". Ma per noi sarebbe stato impossibile: ci eravamo appena ricordate della March For Our Lives, non saremmo nemmeno dovute essere lì, letteralmente. Il nostro volo, il 21 marzo, tre giorni prima, era stato cancellato per una bufera di neve. Della neve non c'era più traccia, però, si stava in maniche corte e noi correvamo e correvamo. Senza fiato, ormai incerte sull'obiettivo della nostra corsa – ci saremmo potute unire alla marcia anche da lì, anche in ritardo? – abbiamo chiesto a un poliziotto. Erano ad ogni incrocio, e abbiamo incontrato quella giusta: "Not only you can, but we encourage it". Sorrideva. Abbiamo sorriso anche noi, e rallentato il passo. Arrivate alla Cinquantanovesima, davanti agli alberi di Central Park, ci siamo fermate a scrivere un cartello col rossetto, la cosa più visibile che avessimo. La barricata proseguiva, costeggiando il parco, ma lì all'angolo c'era un passaggio. Aspettavamo che passasse l'inizio del corteo, preceduto dalle moto del New York Police Department, per unirci a loro con gli altri ritardatari, i turisti e chi era capitato lì per caso, quelli che lanciavano occhiate in giro e chiedevano ai guidatori di carrozze in tutina rossa che cosa stesse succedendo. La tensione saliva, si sentivano i tamburi, si intravedevano le prime bandiere a stelle e strisce. Schiacciate contro il ferro freddo della transenna, per la prima volta, eravamo davvero felici della neve e del volo cancellato. Eccoli: giovani, vecchi, bambini sulle spalle dei papà, pieni di colore e risate, e cartelli con su scritto "I should be more afraid of Voldemort than armed men", "Books over Bullets", "Guns make U.S. weak". Hanno scostato la sbarra che ci frenava, e un altro fiume ha cominciato a scorrere insieme al primo. Sotto i grattacieli, a pochi metri dalla Trump Tower e dai suoi guardiani con i mitra e dalle sue costose cravatte stravaganti, la gente gridava e credeva nelle parole che le uscivano di bocca. Si guardava negli occhi e vedeva riflessa la propria volontà di cambiamento, volontà che diventa certezza perché condivisa. Abbiamo urlato insieme agli altri, ripetendo "Enough Is Enough" anche quando ormai pensavamo di aver perso la voce. La Sixth Avenue è sembrata più corta di quando l'avevamo fatta correndo, tanto il tempo volava."
E allora anche noi, nonostante questa marcia l'abbiamo vissuta solo attraverso parole e foto di altri, sicuramente avremmo camminato con Leda e con tutti gli altri 800mila ragazzi da tutto il mondo.
Perché, dagli Stati Uniti all'Europa all'Australia e ovunque, ci muoviamo tutti insieme.
Perché, dagli Stati Uniti all'Europa all'Australia e ovunque, ci muoviamo tutti insieme.